Il trono di spade

Ci sono molti pregiudizi verso la letteratura fantasy e non sta certo a me in queste poche righe cercare di confutarli però, se in queste sere non rispondo al telefono oppure sto correndo velocemente verso casa e non vi offro neanche un bicchiere, sappiate che mi sto precipitando a vedere in tv “Il trono di spade”.
Si tratta della versione televisiva delle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” di George R. R. Martin, una saga che riconcilia con la lettura e la riporta alla dimensione originaria della favola intesa come fascinazione del puro racconto, di una trama che non si estingue mai, in perenne rigenerazione.
Il paragone corre obbligatoriamente al “Signore degli anelli” che resta il punto di riferimento più preciso per tutto il fantasy, simili sono la creazione di una realtà parallela, geograficamente determinata e storicamente immaginata in un alto medioevo nella convivenza consapevole dell’umanità con elementi magici e soprannaturali. Ma se il “Signore degli Anelli” attinge da cosmogonie pagane e s’impegna in una narrazione dove sono forti gli elementi e i paradossi del cristianesimo, le “Cronache del ghiaccio e del fuoco” puntano dritto alla letteratura politica, con l’analisi e la cura con cui il mondo cinquecentesco accolse “Il principe” di Niccolò Macchiavelli.
Se Tolkien, poeticamente, rappresenta la lotta dello spirito umano nei confronti del potere dell’anello, attraversando la narrazione con la necessità di indicare la catarsi necessaria per  liberarsene, Martin affronta lo stesso problema da una prospettiva più all’altezza del personaggio e necessariamente, più prosaica. Il trono di spade, in questo caso il simbolo del potere, non ha alcuna valenza magica, rappresenta il dominio, ed è fatto materialmente dell’acciaio fuso di tutte le spade dei re e dei cavalieri che sono stati sottomessi. Nei sette regni dominati dal trono di spade, il “potere” è il padrone incontrastato delle storie. Se qualcuno immagina una narrazione facile, una storia semplice dove i buoni e i cattivi sono contrapposti e i primi l’avranno sempre vinta sui secondi ebbene si avvia verso grandi delusioni. Con precisione minuziosa, Martin avverte che il lieto fine non esiste e essere eroi buoni e coraggiosi non basta praticamente mai per tenere la testa attaccata al collo. Nei sette regni si muore facilmente, la decapitazione è la forma più comune, ma l’avvelenamento, lo sgozzamento, la fine in battaglia e arso vivo restano alternative assai probabili. L’autore, crudelmente, ci fa simpatizzare per un personaggio e poi ce lo ammazza sotto i nostri occhi increduli. Il desiderio del potere e della vendetta attraversano quei luoghi dove ogni abominio e’ possibile e in poco tempo ci si accorge che i cattivi saranno pure antipatici, ma rispetto ai buoni hanno sempre migliori chance. Il male trionfa e il racconto avvince seguendo le storie personali di miriadi di personaggi, sfortunate principesse costrette ad assistere alla decapitazione del padre o nobili cavalieri alla ricerca del loro onore perduto e di una rivincita, non manca nulla per comprendere che poi alla fine il travaglio è il nostro, sempre alla ricerca di una ragione sfuggente per dare un senso all’accadere tumultoso della vita intorno a noi, un caos informe e ostile che ci tiranneggia e se poi i manager di oggi vengono definiti “tagliatori di teste” certi accostamenti diventano anche più credibili. Poi c’è la barriera. Una specie di vallo di Adriano a nord dei sette regni custodito dai guardiani della notte, un ordine monastico cavalleresco, che protegge lo statu quo (?) dei sette regni dal pericolo che si trova oltre, dove bruti, giganti e misteriose creature chiamate “estranei”, più simili a zombie che a esseri umani, rendono assai minaccioso l’orizzonte. I costumi sono assai liberi e donne e uomini soddisfano i loro desideri sessuali con partecipazione e assiduità. Il rischio di essere stuprati da un intero esercito di metamorfi è comunque dietro l’angolo, e il troppo ovviamente, stroppia. Innamorarsi è, invece, pericoloso. Vuoi perché la testa dell’amato rischia di finire in poco tempo conficcata su una picca in bella vista all’entrata di un castello, vuoi perché la delusione può arrivare sotto la forma di un valoroso cavaliere innamorato, però, del suo scudiero oppure di una splendida cortigiana tanto perversa sotto le lenzuola quanto veloce a cambiare il destinatario delle proprie effusioni. Non ci si annoia nei sette regni, ma non solo per questa ragione si dorme poco. Non manca la poesia e il respiro profondo di una narrazione avvolgente e calda e nonostante tutto, non mi dispiacerebbe certe sere essere nella fortezza di Grande Inverno, sulla torre di avvistamento a scrutare l’orizzonte imbiancato di neve, sorseggiando una coppa di vino speziato e accarezzando il mio fedele meta-lupo.

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