
Tentare un azzardo e trovare analogie tra Leonard Cohen e Paolo Conte è un gioco partorito da questa pigra domenica in attesa dell’ennesimo temporale. A parte il nome, assonante, l’età, ambedue del trenta e rotti, entrambi poeti più che cantanti ma con una splendida voce, a parte che è stato De Andrè che in Italia per un certo periodo ha trovato più punti di contatto con Cohen, a parte questo mi sembrano interessanti i luoghi mentali, gli spazi immaginari dove si spingono e ci portano con le loro canzoni. Non sto a farvi la pippa di tutte le loro storie, sarebbe lunga e verrebbe male, consiglio fortemente di ascoltarli con un mezzo sigaro acceso in mano, ma anche se si spegna fa niente, un rhum agricolo dall’altra che annebbi un po’ la vista e le banalissime frequenze mentali che, almeno io voi magari no, siamo costretti a ricevere e seduti su una poltrona stazzonata ma calda e comoda, lasciatevi andare. Ora, non è che possiamo fuggire da quella porcheria di realtà che, almeno io voi magari no, agiamo e viviamo, ma l’invito a riflettere è se le parole, le melodie e le atmosfere indicate dai due non possano essere una possibile chance di una realtà non immaginaria, ma che, semplicemente, a me a voi magari no, è sfuggita sotto gli occhi.
Certo le atmosfere hooperiane di Cohen c’entrano poco in senso fisico-geografico con le osterie e le tabaccherie di Conte ma a ben vedere è tutta una questione di spazi fisici non mentali e di analogie se ne possono trovare parecchie. Entrambi raccontano di fughe grottesche, disadattamenti vari, tragedie più o meno ridicole non di ribelli rivoluzionari ma di gente comune, “sfigati” come la parola nella sua area semantica in vertiginosa espansione ne sta includendo a migliaia in queste precise ore, non so voi ma a me sì. E allora? Il “default” non è la cifra di un fallimento personale ma di un fallimento “fattuale” di interi stili di vita, concezioni metafilosfiche che per anni abbiamo assimilato, distruggendo con il napalm del nostro personal-nichilismo ciò che non solo si opponeva ma obiettava a quella che ritenevamo essere la rappresentazione più valida della realtà così come ci veniva imposta e con sottile piacere sadomasochista accettavamo. E così ci siamo persi le bajadere, le Suzanne, le orchestrine, le signore melanconiche in attesa alla stazione, le stazioni di periferia e i distributori di benzina aperti di notte li abbiamo visti di sfuggita senza mai fermarci. Ma ora è arrivato il momento. La realtà ci sta crollando sotto i nostri occhi ma siamo ancora in tempo. Nessuna fuga esotica. Si tratta di fare il passo. Quando volete. Osservate il cielo che promette pioggia sopra di voi, ascoltate la musica che proviene da una finestra, sorridete alla vecchietta che vi passa accanto e offritevi un bicchiere di vino (“quello buono” chiedetelo proprio così) alla prima trattoria aperta che incontrate. Sedetevi, chiudete gli occhi e ripetete il mantra “I’m your man”
Dicembre 4, 2011
Zazzarazzaz…