Hasta la victoria siempre, Don Gallo

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L’ultima volta è stata qualche settimana fa. Era morto Chavez e Bersani cercava di convincere Grillo per il governo. La sacrestia è piena di gente, gli faccio un cenno di saluto e indico il microfono per fargli capire che lo voglio intervistare. Annuisce. Si avvicina e ci salutiamo. Sorrisi. Con il Don ogni volta che ti rivedi si passa in rassegna una vita. “Giovanni… Quanto tempo… “ Sì, Don ero giovane… Lo hai sentito Beppe? Lo ha convinto a sentire Bersani?” “Giovanni… Niente, telefono ma lui butta giù è nel suo bunker… Non parla”.

Dopo l’intervista un sorriso ed è subito davanti alla comunità accorsa a s. Benedetto a ricordare Hugo Chavez.
E’ stata l’ultima volta di una serie infinita di volte. Perché la presenza di qualcuno di familiare spesso si dà per scontata, parte di un infinito presente e poi con il tempo che passa ti accorgi che le voragini improvvise che si aprono e che inghiottiscono i volti più cari sono il paradosso che dà un senso e un valore a tutto: quello scorrere veloce di vita che tragicamente e goffamente constatiamo solo quando qualcuno viene a mancare. Perché la voce di Andrea era lì immota, roca e tuonante al tempo stesso e il suo flusso di pensieri avvolgente, con la frase che partiva sempre da una parola, un’antica e misteriosa ars oratoria di gente, lui come Paride, che ti fissavano negli occhi e ti dicevano una parola che era il concetto, che era la frase e che a volte, spesso, conteneva il mondo intero. Un mondo dove parlare costava e le parole erano importanti, perché sui moli la mattina, sulle banchine, il freddo arriva a folate gelide come il cazzotto di una mano enorme. C’è poco tempo per capirsi nelle strette vie di Genova dopo una notte all’addiaccio e non servono tante spiegazioni per capire chi ha bisogno e chi ti aiuta.

Basta uno sguardo e una parola. E Gallo era lì. Di quegli uomini che prima di tutto e ancora prima dell’atto di pensare, c’era. Una presenza, come quei palazzi enormi e fatiscenti di via Prè, creature quasi viventi di centinaia di secoli, omniscienti e placide, sofferte e vive dove alla base brulica l’esistenza più autentica, l’amore infelice, la tragedia inaudita, il gesto violento nella frontiera tra la vita e la morte dove la vita è, lì, sempre più vita. E lui era lì. Siri che proveniva dalle profondità della chiesa più antica lo chiamava “il mio prete” e lui rispondeva: “Il mio vescovo” perché l’essenza c’era, non la specchiata limpidezza dottrinale dell’uomo di curia, quella proprio no, ma la spregiudicata veemenza del salvatore quando la parola “compagno” “cum panes”, la condivisione dello stesso pane, non è ideologia ma il codice antico e misterioso dell’insperato approdo: la Salvezza. Nulla di astratto. La Salvezza era lo sguardo delle prostitute, quello diffidente e affilato dell’antico mestiere, che al suo incontro diventava quello delle bambine che erano ancora, contente e rinfrancate nel vederlo, lui che le chiamava per nome; la Salvezza sono i ragazzi ex tossici, con il loro slang e quella cadenza tutta particolare, ripuliti e dignitosi lavorare come dei matti in trattoria. La Salvezza è la realtà che ritorna degna di essere vissuta e lui quel miracolo lo faceva ogni giorno, magari solo in un saluto. Ma non è solo questo, se non bastasse. Lui era una parte di città e la città era una parte di lui, come Amanzio, come Paride, come Faber e come tanti altri che per fortuna sono ancora tra noi. Il mistero e la miseria, la purezza e la solidarietà in un colpo solo, dove l’ideologia è solo la determinatezza storica in cui siamo destinati a vivere, i fatti storici che ci condizionano ma la storia è molto più antica iscritta nei portali delle vecchie chiese, nel respiro potente della città vecchia quando è notte e i bisbigli e i fruscii, le anime perse e quelle che si cercano precipitano lì, nel confine tra l’abisso e la vita incessantemente, tutti i giorni. Lui non c’è più ma sarebbe contento se tutti almeno una volta nella vita accettassero di sfidarlo l’abisso, lui che c’era di casa.

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